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Semplificare gli atti amministrativi o prevenire gli effetti alla fonte?
Febbraio 2012 - A cura di Luciano Mattevi Sulla scorta del prezioso spunto lanciato da Matteo Buttini, Responsabile Tutela da Rumore del Comune di Verona, al quale rivolgo un sentito ringraziamento, desidero sviluppare l’argomento di questo mese. In particolare, la riflessione che mi appresto a presentare parte dalla notizia, recentemente apparsa sul web e di cui anche questa redazione ha fatto cenno, circa l’avvenuta pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 3 febbraio scorso del decreto del Presidente della Repubblica 19 ottobre 2011, n. 227 con il quale è stata introdotta la semplificazione di alcuni adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle imprese. Fra le disposizioni ambientali interessate dal citato disposto normativo sono state incluse anche quella relativa alla documentazione di impatto acustico, predisposta ai sensi dell’art. 8 della, ormai nota, Legge 26 ottobre 1995, n. 447 recante "Legge quadro sull’inquinamento acustico". Scopo del legislatore è dunque quello di ridurre, semplificandoli, gli adempimenti, spesso onerosi, previsti a carico di quelle imprese che esercitano attività a basso impatto fonico, ovvero quelle categorie di attività indicate dall’Allegato B al menzionato decreto, dal quale sono tuttavia esclusi i ristoranti, le pizzerie, le trattorie, i bar, le mense, le attività ricreative, agroturistiche, culturali e di spettacolo, le sale da gioco, le palestre, gli stabilimenti balneari che utilizzino impianti di diffusione sonora. Da una prima lettura, non certo semplice, è prevedibile si dovrà attendere il consolidamento di questa nuova prassi, prima di poter comprendere appieno l’efficacia di tale, apparentemente pratico, provvedimento. Ciò che invece non è certo è se l’intento del legislatore sia quello di voler escludere quegli adempimenti, considerati inutilmente onerosi, posti a carico di quelle attività che, si presume, non facciano uso di impianti rumorosi, ovvero di impianti che possano superare i limiti di legge. Non v’è dubbio che l’uso di una generale dose di "buon senso" o, comunque, di un atteggiamento accorto e sensibile alle esigenze altrui avrebbe, già di per sé, il pregio di evitare, sul nascere, l’instaurarsi di possibili condizioni di disturbo, a fronte delle quali è prevedibile l’avvio di azioni repressive. Una situazione che potrebbe venir scongiurata qualora, prima di intraprendere un’attività o modificare degli impianti, venisse posta una qualche attenzione al luogo dove questa verrà ad insediarsi, alle caratteristiche di emissioni delle attrezzature impiegate, alle qualità acustiche dell’edificio, specie se al suo interno sono previste, o sono già presenti, delle unità abitative. Numerose di queste informazioni sono oramai disponibili e diffuse gratuitamente, basta semplicemente saperle cercare. Infatti, la commercializzazione di molti macchinari viene accompagnata dalla etichettatura, nella quale sono riportati i valori di rumorosità emessi dall’apparecchio durante il suo funzionamento. Per quanto riguarda gli edifici, ad esempio, da tempo è prevista la predisposizione di una valutazione e, in certi casi, il collaudo in opera delle caratteristiche acustiche, in relazione a quanto indicato dal d.P.C.M. 5 dicembre 1997 recante "Determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici", benché l’Ente Nazionale Italiano di Unificazione (UNI) abbia di recente elaborato la norma UNI 11367 per la Classificazione acustica delle unità immobiliari, in analogia a quanto diffusamente avviene in campo energetico, attraverso la quale è possibile risalire, per mezzo della classe acustica di appartenenza, alle qualità fonoisolanti della struttura nella quale abbiamo intenzione di insediare l’attività. In altre parole, non vi sarebbe necessità di alcun adempimento formale preventivo, se decidessimo di applicare quello che, in molti Paesi europei, avviene oramai da tempo: "dove si lavora non si vive e dove si vive non si lavora". Nel nostro Paese, invece, risulta assai usuale il ricorso ad un consenso procedurale ambivalente, avvallato da un iter autorizzativo che, seppur legittimo, alimenta un ingiustificabile "circolo vizioso" nel quale, se da un lato si desidera sostenere la tutela della popolazione dai rischi derivanti dall’esposizione al rumore, dall’altro non si ostacola, limitandolo, lo sviluppo di aree da questo inquinate. Un pensiero che trova una delle sue più eloquenti rivelazioni allorquando si accondiscende all’accostamento di luoghi preposti alla quiete e al silenzio a luoghi rumorosi, e viceversa, così come non di rado avviene quando sono realizzati complessi residenziali in vicinanza di infrastrutture o attività rumorose, pubblici esercizi in contesti condominiali prevalentemente, se non esclusivamente, destinati alla residenza e così via. Desiderare una cosa, ma anche il suo esatto contrario, non pare possa rappresentare una soluzione che abbia insito il merito di voler garantire la razionalizzazione delle risorse ed il miglioramento della qualità della vita. Si ritiene, piuttosto, che le pretese, legittimamente espresse, possano trovare appagamento solo in un contesto ad esso corrispondente, che di norma rileviamo nelle più elementari relazioni, quali quella che: coloro che acquistano casa hanno la prerogativa di poter vivere il proprio tempo nella quiete e nella tranquillità, mentre chi lavora desidera poter esercitare serenamente, senza essere assillati dalle continue lagnanze del vicino, il proprio mestiere. Entrambe le aspettative vanno opportunamente, oltreché doverosamente, rispettate e tutelate, affinché il bene dell’uno non abbia a significare le "disgrazie" dell’altro. Non è forse questo che noi tutti desideriamo?
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