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Proposta di modifica dell’articolo 844 del codice civile

Gennaio 2009 - A cura di Luciano Mattevi
 

In queste ultime settimane è tornata alla ribalta una “vecchia” proposta di legge (documento pdf) con la quale si intende modificare il criterio interpretativo in capo all’art. 844 c.c. in materia di immissioni sonore. Il tema trattato è alquanto delicato, sia perché invade la sfera di competenza dei giudici, sia perché entra nell’ormai annosa questione circa la valutazione del disturbo da rumore per mezzo di metodi analitici.

Il fenomeno acustico riconducibile al contesto di rumore, ossia a effetti conseguenti a esposizioni sonore indesiderate, varia da persona a persona, interessando la sfera sociale, culturale ed emotiva dei soggetti coinvolti. Non sempre parametri tanto variegati e complessi possono trovare riscontro attraverso una semplice rappresentazione numerica, come molti, anche tecnici competenti in acustica, vorrebbero far credere. Un cruccio questo a cui non è ancora stata data risposta. Per questo motivo desidero affrontare questo tema non certo con la presunzione di voler dare delle risposte, quanto con il desiderio di voler fornire delle riflessioni che aiutino a comprendere l’importanza del prezioso bene che intendiamo tutelare, ossia la salute dell’individuo.

La corrente interpretazione giurisprudenziale è oramai concorde e consolidata nel ritenere intollerabili quelle immissioni sonore che superano di 3 dB il livello di rumore di fondo. Un criterio assunto negli anni ’70 per determinare attraverso analisi metrologica ciò che comunemente viene sperimentato come reazione soggettiva al rumore. Tale metodo affonda le sue radici nella “vecchia” RACCOMANDAZIONE ISO 1996: 1971 citata e richiamata in applicazione delle prime sentenze di merito e poi, in circostanza di giudizio, mai smentita. La citata raccomandazione ISO non invade il campo di competenza dei giudici, ma si limita a proporre dei livelli di reattività della collettività esposta al rumore.

In ambito pubblicistico, invece, la valutazione del disturbo è stata assunta dal d.p.c.m. 1° marzo 1991 prima e dalla Legge n. 447/95 poi. In particolare, il d.p.c.m. 14 novembre 1997 recante “Determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore” individua i valori limite assoluti e differenziali ai quali le sorgenti sonore devono sottostare. I metodi espressi da questi riferimenti normativi sono assai differenti. Al riguardo, mentre il criterio giurisprudenziale impone l’applicabilità del metodo comparativo, a prescindere da soglie limite, il metodo pubblicistico prevede delle soglie minime, al di sotto delle quali “…ogni effetto del rumore è da ritenere trascurabile”. Cosicché, non è raro assistere che per il medesimo fenomeno rumoroso, il criterio giurisprudenziale proponga un esito differente da quello espresso in ambito pubblicistico. In altre parole, affrontare la rivendicazione del disturbo attraverso l’intervento degli organi di controllo amministrativi (ARPA) o ricorrere contro il responsabile del disturbo lamentato in sede civile, può determinare il successo o l’insuccesso della rivendicazione assunta.

A prescindere dai tecnicismi giuridici relativi alle competenze di merito e all’ambito di intervento dei due ordinamenti giuridici richiamati, pare utile capire quale sia la reale esigenza del legislatore: intervenire a tutela del disturbato o, piuttosto, contemperare la tutela e salute degli individui con le necessità della produzione, offrendo una omogeneità di trattamento fra coloro che sono sottoposti a verifica, a prescindere che si tratti di accertamenti disposte dalla Pubblica Amministrazione o dal Giudice nel corso di una causa civile?

Molti considerano il criterio imposto dall’applicazione dell’art. 844 c.c. eccessivamente restrittivo e, non è da escludere, che in alcuni casi tale limitazione sia difficilmente conseguibile da parte di aziende che, nel corso degli anni, sono state fagocitate all’interno di aree abitative in continua espansione. Pensiamo ad esempio ai numerosi impianti industriali interessati dall’edificazione di edifici ad uso abitativo a poche decine di metri. In questi contesti, ipotizzare di adeguare entro la soglia dei 3 dB un impianto che viene utilizzato, magari, nelle ore notturne, ove il livello di fondo è minimo, è operazione assai complessa se non addirittura impossibile. Diversamente, considerare accettabile un’immissione sonora pari a 34 dB(A) a finestre chiuse, durante il periodo diurno all’interno di abitazioni situate sopra un bar, un laboratorio artigianale o altra attività produttiva, è una situazione che, a esperienza di chi vi scrive, risulta difficile da sopportare. Come si può constatare, quindi, entrambi i criteri normativi citati offrono vantaggi e svantaggi. In alcuni casi le limitazioni imposte sono eccessivamente vincolanti per l’azienda, in altri eccessivamente permissive per il disturbato; dipende da che parte si sta al momento della rivendicazione. Ritengo piuttosto che l’esperienza maturata in questi anni possa servire per affrontare in modo nuovo e alternativo il problema rumore, intervenendo sulle soglie limite, sui criteri di definizione dei parametri di confronto, ma soprattutto operando in maniera incisiva e radicale sulle cause che determinano il disturbo, magari impedendo che attività produttive e abitazioni insistano in una complicata quanto improbabile forma di convivenza.

 

 

 

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